E’ Bernard che ci ha portato fino a N’gayokheme. Un nostro vicino dell’Unité 26 di Parcelles, un simpatico pensionato con cui fermarsi a chiacchierare in strada. Esperto di fatti di cronaca generali, gioco delle bocce e gioco del calcio.
Oltre alla religione cattolica pratica un altro culto: tramanda ai posteri le imprese della nazionale del 2002 e del loro eroico percorso fino ai quarti di finale, in Corea del Sud.
N’gayokheme è il paese in cui è cresciuto. Il paese dove, nel lontano 1961, Bernard ha frequentato la prima scuola elementare e dove sono sepolti i suoi genitori. Ci porta nel quartiere detto N’diayenne perché quasi tutti gli abitanti fanno N’diaye di cognome. Rigorosamente etnia serere. Capire i legami di parentela è più difficile che ascoltare i discorsi delle nostre nonne. Ovunque entriamo siamo o da una sorella o da un fratello o da uno N’diaye, quindi sempre in famiglia.
Ogni casa ha un cortile circondato da palizzate di legno che ne delimitano il perimetro.
Il rito è sempre lo stesso. Si entra, Bernard saluta per 5 minuti di fila e poi ci viene chiesto di metterci seduti sulle sedie che vengono liberate o che spuntano fuori dal nulla. Prenez place, prendete posto. E così si passa alle presentazioni. Sono sorrisi che ci osservano, ci ringraziano e ci dicono se vogliamo mangiare.
La mattinata scorre tra presentazioni e visite ai personaggi illustri e comuni del paese. Il signore anziano, l’impiegato comunale, il preside della scuola, la zia, lo zio.
Ci fermiamo anche sotto l’arbre-à-palabre, piccolo spazio ombreggiato dove gli uomini si riuniscono per condividere idee, chiacchierare e per far passare il tempo.
Dopo un Tiebu Diene cucinato da Therese, la donna di casa, riposiamo nel cortile degli N’diaye. E’ Leopold, il fratello di Bernard, a preparare l’attaya, il tè. Una preparazione lenta e riflessiva che permette di riprendere energie mentre il sole esplode nelle ore più calde della giornata. Leopold ci parla un po’ della realtà del paese. L’elettricità che è arrivata nel 2006 e che ha stravolto in meglio la quotidianità. Ci racconta anche dell’acqua che mancava fino a qualche anno fa. Una volta le donne avevano un lavoraccio da fare, si alzavano presto ogni mattina per ricaricare l’acqua al pozzo – ci dice Leopold – adesso con i rubinetti sono diventate tutte pigre e, per fortuna, non sono più costrette a percorrere kilometri.
Sarà, ma da quando sono arrivato devo ancora vedere Therese fermarsi un attimo.
Pierre è uno N’diaye. Conduce con sapienza un carretto trainato da Sallou, un cavallo di tre anni nel pieno delle sue energie. Si sta facendo sera e così andiamo a visitare i campi attorno al paese. Raggiungiamo alcuni paesi che ancora non hanno né elettricità né acqua. Ci vengono offerte arachidi in tutte le salse. Assistiamo anche alla raccolta dove i contadini e le contadine ci osservano incuriositi. Deve essere strana la vista di tre toubab su un carretto in un normale pomeriggio di dicembre.
Noi anche siamo a bocca aperta. Il paesaggio che ci circonda è una novità assoluta per i nostri occhi e per il nostro spirito.
Baobab, pascoli di mucche, silenzio assordante. Solo il trotto del cavallo ci riporta alla realtà e così rientriamo a casa mentre un sole grasso e rosso se ne va dietro la brousse.
E’ ormai sera. Dopo una doccia rigenerante mi aggiro tra i corridoi della casa in cui siamo ospiti. La mia attenzione cade sul fornello. Therese è alle prese con la preparazione della cena. Sta lessando degli spaghetti.
E’ difficile spiegare cosa si prova, da cultori della pasta, quando non si ha la certezza che il prodotto finale possa essere all’altezza di ciò che si considera un ‘buon piatto di spaghetti’. Verrebbe da dire Ma no, grazie, guardi uno yassa poulet sarebbe molto più adatto per questa sera. Addirittura ormai lo preferisco alla pasta. Un tiebe yapp? Perché no? Perché proprio gli spaghetti? Non c’è niente da fare, quando si tratta di pasta siamo inconsciamente esigenti, tendiamo a fidarci poco…
Il risultato finale? Non il miglior piatto di spaghetti assaggiato, per dire.
Li porto alla bocca con un cucchiaio, cercando di condirli con una salsa di pomodoro e cipolla sparsa qua e là sul piatto comune che condivido con gli altri commensali, come si usa in Senegal.
E’ stata dura: devo ammetterlo. Ma è solo la punta dell’iceberg dell’ospitalità ricevuta dagli abitanti di questo sperduto villaggio nella regione di Fatick.
L’ultimo modo per venirci incontro prima della nostra partenza: prepararci un piatto di spaghetti.
Una bellissima sfida per farci sentire a casa.
Francesco Mazzanti