“Tutti agibili”: cronaca di un sabato estivo

Sabato, 24 giugno, si svolgeva l’evento “Tutti agibili per un giorno” a Visso, uno dei borghi dei Sibillini più colpiti dal sisma.
Partiamo dal capoluogo marchigiano sotto un sole cocente che non lascia spazio al respiro. Percorsi i venti chilometri che separano l’uscita dalla superstrada di Muccia da Visso, lasciata la macchina sotto la provvidenziale ombra di un pino, ci avviamo verso Il Laghetto, parco che si trova proprio di fronte all’ingresso del centro storico, da quasi un anno zona rossa. Passeggiamo fino al Laghetto, tra le rovine e il silenzio di alcune case che sembrano integre, “ma in realtà dentro è un’inferno”. Arriviamo a quello che era il bar Montebovi, fronteggiato dal piccolo distributore di benzina immerso nelle macerie. Entrando al Laghetto, per un istante ci si potrebbe anche scordare di essere a due passi da un paese che vive più fermo e silenzioso delle montagne che gli fanno da cornice.
Decidiamo che prendere un caffè, “per rompere il ghiaccio”, è forse quello che serve. Quindi conosciamo il barista, vive nei camper del campo sportivo ed è uno degli eroi del Visso calcio, favola sportiva, promossa nonostante TUTTO dalla terza alla seconda categoria nel campionato appena concluso. “St’anno avemo fatto il culo a tutti” spiega con un gesto eloquente, mentre a noi si illuminano gli occhi. Tra gli stand c’è quello del Parco nazionale dei Monti Sibillini, preso d’assalto da escursionisti in cerca di informazioni certe sullo stato e l’agibilità dei sentieri del parco. Poi ci fermiamo da Valentina, veterinaria di Ussita, che ci parla del suo lavoro in paese e della cura per gli animali, randagi ma non solo. Il suo sorriso e i suoi ricci neri ci raccontano la storia di un toro che, persa la stalla e il riparo nei giorni delle forti scosse, si riparava nel parco dei bambini, passando le notti vicino ai giochi a forma di animale, immobili. Continuiamo a girare tra gli stand e incontriamo “I rifugi dei Sibillini”, associazione nata da poco che propone escursioni guidate e organizzate tra gli splendidi rifugi di questa zona dell’Appennino. Rimaniamo a bocca aperta davanti alle foto dei paesaggi e dei luoghi delle escursioni, puntiamo gli indici sulla grande cartina (“fresca fresca, stampata ieri per l’occasione!”) stesa sul tavolo, progettando itinerari e sognando già le passeggiate, i boschi e il silenzio.

 

 

Intermezzo: Panino con Vissuscolo (“cos’è il Vissuscolo? Eh, il ciauscolo de Visso!”), “un burro”. Panino con porchetta, olive fritte, per stare leggeri.

Il programma della giornata prevede una discussione con Matteo Sabbatini, maturando del Liceo scientifico di Camerino, abitante di Visso e vincitore del premio giornalismo della Regione grazie all’articolo “Derby: una normale domenica di anormalità a Visso”, pubblicato sul giornale studentesco della sua scuola. Le tempistiche dell’evento e il sole inclemente che picchia sul palco non permettono a Matteo di dilungarsi e di raccontare la propria storia, così decidiamo di farci due chiacchiere all’ombra. Matteo ci parla del giornale studentesco, ci fa sfogliare due copie che tiene nello zaino, “l’ultimo numero è molto condizionato dal terremoto – dice – è stato un vero miracolo anche solo mandarlo in stampa.” Parliamo di strategia dell’abbandono e ci racconta cos’è il Bronx, il quartiere delle roulotte poco fuori dal paese, luogo in cui la permanenza è dettata dalle mancanze, dai disagi, ma anche luogo in cui ci si è ritrovati, in cui si è riscoperto “il lusso” della comunità, dello stare insieme, in cui si sono rinsaldati legami e costituite relazioni prima inaspettate. Matteo ha la terza prova fra qualche giorno, il quizzone, “alla prima ho scelto la traccia numero due, la Natura”, ci dice con un sorriso amaro. Ci salutiamo con la promessa di vederci presto, “se volete fare escursioni contate su di me!” e questa volta il sorriso non è amaro. Nel frattempo sul palco si prosegue, Dodi Conti legge delle lettere che sono esperienze, testimonianze, storie della vita “nel cratere” con l’accompagnamento musicale di Alessio Corasaniti; poi arrivano Li matti de Montecò tra il salterello e gli stornelli: “diceva na signora ieri sera, pià marito è na gran fregatura, prima portavo giù li panni belli, adesso rmango sempre coi monelli”.

Non abbiamo dubbi sulla “riuscita” di Tutti agibili per un giorno come evento. Ci è bastato vedere il fermento, la disponibilità puntuale e allo stesso tempo la carica, la vivacità da parte chi lavorava agli stand; le discussioni fitte tra agricoltori e imprenditori, e potremmo andare avanti. “Tutti agibili” ha, tra le altre cose, il grande merito di creare un luogo Altro da ciò che lo circonda. Ad oggi, ciò che circonda chi r-esiste a Visso e negli altri paesi colpiti, sono le macerie, cioè il segno del ritardo nella ricostruzione, il segno dell’impotenza quotidiana di fronte ad una burocrazia che mette i bastoni fra le ruote. “Tutti agibili” ha creato un luogo Altro al Laghetto di Visso, ma non perché ha tagliato fuori il suo contesto, gli effetti del sisma e i problemi connessi. Non è una rimozione, un non volerci pensare. “Tutti agibili”, al contrario, tira al suo interno tutti questi problemi, infrangendo le distanze territoriali e concentrando nello stesso evento persone, istanze, idee con cui si progetta di affrontare i problemi. Ed è Altro dal solito perché dà una spinta allo stallo, rompe il silenzio delle macerie, dà un calcio alla staticità, alle promesse, alle soluzioni che arrivano dall’alto. “Tutti agibili” crea una rete di relazioni “per”, per la ricostruzione, per il recupero, per la ricongiunzione delle persone con i luoghi. Ce ne andiamo da Visso e non smettiamo di pensarci e parlarne. Per noi è stata una giornata importante, indispensabile. Non vediamo l’ora di tornare per continuare a conoscere e raccontare.

Francesco Mazzanti e Enrico Mariani

Spaghetti a Ngayokheme

E’ Bernard che ci ha portato fino a N’gayokheme. Un nostro vicino dell’Unité 26 di Parcelles, un simpatico pensionato con cui fermarsi a chiacchierare in strada. Esperto di fatti di cronaca generali, gioco delle bocce e gioco del calcio.

Oltre alla religione cattolica pratica un altro culto: tramanda ai posteri le imprese della nazionale del 2002 e del loro eroico percorso fino ai quarti di finale, in Corea del Sud.

N’gayokheme è il paese in cui è cresciuto. Il paese dove, nel lontano 1961, Bernard ha frequentato la prima scuola elementare e dove sono sepolti i suoi genitori. Ci porta nel quartiere detto N’diayenne perché quasi tutti gli abitanti fanno N’diaye di cognome. Rigorosamente etnia serere. Capire i legami di parentela è più difficile che ascoltare i discorsi delle nostre nonne. Ovunque entriamo siamo o da una sorella o da un fratello o da uno N’diaye, quindi sempre in famiglia.

Ogni casa ha un cortile circondato da palizzate di legno che ne delimitano il perimetro.

Il rito è sempre lo stesso. Si entra, Bernard saluta per 5 minuti di fila e poi ci viene chiesto di metterci seduti sulle sedie che vengono liberate o che spuntano fuori dal nulla. Prenez place, prendete posto. E così si passa alle presentazioni. Sono sorrisi che ci osservano, ci ringraziano e ci dicono se vogliamo mangiare.

La mattinata scorre tra presentazioni e visite ai personaggi illustri e comuni del paese. Il signore anziano, l’impiegato comunale, il preside della scuola, la zia, lo zio.

Ci fermiamo anche sotto l’arbre-à-palabre, piccolo spazio ombreggiato dove gli uomini si riuniscono per condividere idee, chiacchierare e per far passare il tempo.

 

Dopo un Tiebu Diene cucinato da Therese, la donna di casa, riposiamo nel cortile degli N’diaye. E’ Leopold, il fratello di Bernard, a preparare l’attaya, il tè. Una preparazione lenta e riflessiva che permette di riprendere energie mentre il sole esplode nelle ore più calde della giornata. Leopold ci parla un po’ della realtà del paese. L’elettricità che è arrivata nel 2006 e che ha stravolto in meglio la quotidianità. Ci racconta anche dell’acqua che mancava fino a qualche anno fa. Una volta le donne avevano un lavoraccio da fare, si alzavano presto ogni mattina per ricaricare l’acqua al pozzo – ci dice Leopold – adesso con i rubinetti sono diventate tutte pigre e, per fortuna, non sono più costrette a percorrere kilometri.

Sarà, ma da quando sono arrivato devo ancora vedere Therese fermarsi un attimo.

 

Pierre è uno N’diaye. Conduce con sapienza un carretto trainato da Sallou, un cavallo di tre anni nel pieno delle sue energie. Si sta facendo sera e così andiamo a visitare i campi attorno al paese. Raggiungiamo alcuni paesi che ancora non hanno né elettricità né acqua. Ci vengono offerte arachidi in tutte le salse. Assistiamo anche alla raccolta dove i contadini e le contadine ci osservano incuriositi. Deve essere strana la vista di tre toubab su un carretto in un normale pomeriggio di dicembre.

Noi anche siamo a bocca aperta. Il paesaggio che ci circonda è una novità assoluta per i nostri occhi e per il nostro spirito.

Baobab, pascoli di mucche, silenzio assordante. Solo il trotto del cavallo ci riporta alla realtà e così rientriamo a casa mentre un sole grasso e rosso se ne va dietro la brousse.

 

E’ ormai sera. Dopo una doccia rigenerante mi aggiro tra i corridoi della casa in cui siamo ospiti. La mia attenzione cade sul fornello. Therese è alle prese con la preparazione della cena.  Sta lessando degli spaghetti.

E’ difficile spiegare cosa si prova, da cultori della pasta, quando non si ha la certezza che il prodotto finale possa essere all’altezza di ciò che si considera un ‘buon piatto di spaghetti’. Verrebbe da dire Ma no, grazie, guardi uno yassa poulet sarebbe molto più adatto per questa sera. Addirittura ormai lo preferisco alla pasta. Un tiebe yapp? Perché no? Perché proprio gli spaghetti? Non c’è niente da fare, quando si tratta di pasta siamo inconsciamente esigenti, tendiamo a fidarci poco…

Il risultato finale? Non il miglior piatto di spaghetti assaggiato, per dire.

Li porto alla bocca con un cucchiaio, cercando di condirli con una salsa di pomodoro e cipolla sparsa qua e là sul piatto comune che condivido con gli altri commensali, come si usa in Senegal.

E’ stata dura: devo ammetterlo. Ma è solo la punta dell’iceberg dell’ospitalità ricevuta dagli abitanti di questo sperduto villaggio nella regione di Fatick.

L’ultimo modo per venirci incontro prima della nostra partenza: prepararci un piatto di spaghetti.

Una bellissima sfida per farci sentire a casa.

Francesco Mazzanti

Navetane. Calcio, passione e scaramanzia (parte 2)

Alla fine della partita dei cadet, decidiamo di spostarci nel settore di fronte alla tribuna. Moussa dice che i tifosi di Arafat sono un po’ violenti e non vuole farci correre rischi. Non notiamo grandi differenze ma decidiamo di seguirlo.
Lo spazio aperto della gradinata ci permette di godere del venticello che soffia leggero.
La luna, bianca come una palla, è il quinto riflettore.
Entrano in campo i giocatori. Noi facciamo gruppo con i ragazzi di Arafat, Moussa mi dice che allo stadio si tifa per i bianco-neri. E’ uno dei quartieri più popolari, più densamente abitati e in cui la passione per il calcio si vive quotidianamente. Quasi tutti tifano Arafat.
Anche per questo, dopo due minuti, cala il silenzio. Un’azione fortuita dentro l’area di rigore arafatiana fa scivolare la palla in rete.
Uno a zero Galgui. I tifosi però non perdono le speranze. Nessuno canta e si assiste alla partita in silenzio o creando lunghi e interminabili dibattiti su ogni tipo di azione. Dibattiti da cui, purtroppo, sono escluso perché in wolof.

Devo essere sincero, la partita è di una noia incredibile. Non ci sono azioni degne di nota. Talvolta si notano sprazzi di tecnica ma che si concludono in un nulla di fatto.
Tantissima corsa e un atletismo incredibile, mi dice Moussa, ma vedi che non hanno uno schema di gioco? Ils sont mal disposés, sono messi male in campo. I tifosi alle nostre spalle spesso non la prendono bene: vengono gettate in campo sacche d’acqua che esplodono. A volte volano verso il campo anche delle pietre. La guardalinee, a metà secondo tempo, fa interrompere il gioco all’arbitro perché non si sente sicura.

Come spesso mi dice Moussa, ciò che rende interessante il Navetane non riguarda propriamente il calcio giocato.
La partita è in corso e fanno l’ingresso nello stadio le altre due squadre che giocheranno al termine della prima semifinale. La squadra Cité Millenaire, bianco-blu, inizia un particolare giro di campo.
Camminano in fila indiana sulla linea che delimita il terreno di gioco, la partita intanto scorre senza interruzioni. I giocatori, con i dirigenti e con l’allenatore, passeggiano lentamente.
In coda al gruppo un uomo lascia cadere dalle sue mani manciate di qualcosa che sembra sabbia. A ogni calcio d’angolo si fermano e lo stesso uomo seppellisce un amuleto vicino alla bandierina.
Ogni squadra, e a quanto pare anche alcuni giocatori, fa riferimento a un marabutto di fiducia. Uomini religiosi che godono di ottima reputazione in buona parte della società senegalese. Forse ottima reputazione è persino riduttivo: sono uomini rispettati e ai più importanti vengono riconosciuti valori profetici. Rappresentano l’incrocio tra la religione islamica e le credenze ancestrali che preesistevano all’influenza araba in Senegal. I marabutti possono essere interpellati a partita in corso e, anche non assistendo alla gara, possono consigliare gesti da compiere o particolari scongiuri a cui molti credono ciecamente.

Ad un momento della partita il numero 20 di Afarat è in netta difficoltà, è un attaccante esterno che ci mette buona volontà ma che non arriva dove vorrebbe. Dialoga spesso con i tifosi di Arafat che si trovano vicino a noi. A dieci minuti dalla fine, mentre il gioco si è interrotto per un fallo, l’ala destra scatta verso la nostra gradinata, un tifoso gli passa qualcosa tra le mani.
E’ un uovo.
Con la stessa velocità si dirige verso la porta avversaria e lo distrugge, scaraventandolo con violenza dall’alto verso il basso, dietro la linea.
Fa gol, insomma.
Speriamo bene, dico a Moussa. E’ un po’ amareggiato perché desiderava farci ascoltare il boato dei tifosi di Arafat, ma niente di fatto. La partita termina 1 a 0 per Galgui, se ne parlerà il prossimo anno.
Il giro di campo finale dei Galgui non è molto ben visto dalle nostri parti, volano alcune pietre all’indirizzo dei giocatori che pensano bene di tornare negli spogliatoi per festeggiare.
Noi chiacchieriamo della partita, serpeggia delusione tra i volti dei nostri amici ma nessuno si dispera. Sono tutti già pronti quando scendono in campo le altre due squadre semifinaliste. Il calcio di questo venerdì sera non finisce qui: c’è un’altra partita, altre due ore di aggregazione, chiacchiere, socialità e divertimento a cui nessuno sembra volersi sottrarre.

I tifosi delle nuove squadre ASC Yakaar e Cité Millionaire sono un po’ più vivaci. I secondi accendono torce, cantano e ballano per i primi dieci minuti poi, anche a causa della prestazione della loro squadra, la palla passa ai supporter di Yakaar. Dal silenzio totale si sentono due colpi di tamburi sotto la tribuna dove hanno preso posto, dietro al loro striscione. Da distante si notano così tanti corpi in movimento da sembrare una sola persona che balla e canta.
Il ritmo dei djembe ci accompagna fuori dallo stadio quando decidiamo, ormai stanchi, di ritornare a casa. La confusione e il rumore della strada sotto lo stadio ci riportano in pochi secondi al contatto con la realtà.
Un taxi ci riaccompagna a casa mentre la VDN, vuota a quest’ora, lascia spazio ai pensieri. Nessuno parla, ma non c’è bisogno.

Francesco Mazzanti