Ho attraversato le vie di Dakar con gli occhi curiosi del mio grande amico Francesco, seguendo i suoi passi e facendomi guidare da lui. Dakar era da qualche mese, la sua casa. Ricordo bene il caldo che mi ha investito non appena sceso dall’aeroporto, nonostante fossero le 3 di mattina di un 16 Dicembre. In Senegal si è quindi nel pieno della stagione secca, niente clima natalizio e nessuna lucina colorata per le vie. La mia mentalità da europeo mi aveva già da subito ingannato, e non sapevo che questo sentimento mi avrebbe accompagnato per tutto il tempo. L’Africa mi aveva dato il suo benvenuto.
Parole come Car Rapide, Thiebou dien, Yassa poulet, Toubab, erano entrate in pochi giorni nella mia testa e facevano parte del quotidiano, così come il colore giallo della sabbia e l’azzurro del mare e del cielo. Di colori ce n’erano un’infinità a dirla tutta, donne e uomini con vestiti e copricapo sgargianti passeggiavano per le vie sabbiose di Dakar. In questo arcobaleno di colori, l’unico ad essere fuori luogo, era il mio. Il colore del colonizzatore.
Osservato, indagato, frainteso. Mi sentivo derubato della possibilità di muovermi liberamente, senza che occhi scrutatori si posassero su di me. Ai tassisti invece, il mio colore della pelle piaceva, mi suonavano con il clacson da diversi metri di distanza per avvertirmi del loro arrivo. Il mio colore per loro significava soldi. Ero una puttana ambulante pronta ad essere caricata e lasciata a destinazione sotto lauto compenso. Anche i bambini mi venivano incontro sorridenti per le strade di Parcelles, ero il loro “Toubab” e sapevano che la loro insistenza si sarebbe tradotta in qualche moneta.
Una cosa però andava oltre i colori, oltre le differenze, oltre la storia. A due passi dal mare, sulla spiaggia umida, molti ragazzi avevano creato delle porte con i vestiti lasciati a terra e giocavano a calcio lungo tutto il bagnasciuga. Con le maglie dei giocatori europei più in voga del momento, i ragazzi formavano varie squadre improvvisate e si sfidavano a chi arrivasse prima a tre goal, con la classica formula del “Chi vince regna”. Non ci è voluto molto prima che io e Francesco facessimo parte di una di quelle squadre. Ricordo bene la loro corsa libera su e giù per la spiaggia, i piedi abituati a quel terreno e il nostro fiatone colpevole dei vizi cristiani.
Dakar per me è stato questo, e molto molto altro.
A distanza di un anno quei dieci giorni sono ancora profondamente dentro di me e mi capita di ascoltare le conversazioni dei fratelli africani in giro per la città, giocando a scovare qualche parola in dialetto wolof, illuminati dalle luci di questo bianco Natale.
Francesco Tavoloni