È orribile, è schifoso doversi occupare dei fascisti

Qualcuno dice che Roma è una città di destra. Qualcuno dice che è una città di estrema destra. Qualcun altro dice che Roma è una città fascista. Termine che noi, non amiamo. Dice noi, chi? Noi fasci, naturalmente. Non amiamo sentire la parola fascista perchè il fascismo, secondo noi, non è mai esistito. Secondo noi chi? Secondo noi fasci, naturalmente.

(Sabina Guzzanti imita Giorgia Meloni)

Non si fa neanche in tempo a capire cosa sta succedendo e subito viene polarizzato un dibattito vecchio quanto gli stoici: i “fascisti del terzo millennio” hanno o no il diritto di organizzare la presentazione di un libro negli accoglienti locali della Fiera della Pesca? E’ aperto il televoto. Tu per chi scommetti? D’altronde il modello dell’arena, l’uno contro uno, è diventato il top trend preferito nella scena mediatica, con guanti di sfida lanciati e confronti minacciati, anelati, temuti, disertati, persi, vinti.

Ora, l’analisi sul dibattito che ci restituisce il video di Ancona today è pari a zero. Ogni pretesa di visione d’insieme, che invece si vorrebbe sostenere con le interviste “a campione”, è appiattita sulla forma sondaggistica da reality show. Il dato che ci sembra sovrastare gli altri è un uso sciagurato e giustificatorio del concetto di libertà di espressione.

Non contrastare i fascisti; lasciarli parlare; citare una frase di Voltaire che Voltaire non ha mai scritto… Una linea non solo nefasta, ma gretta, perché da privilegiati, da inabili alla solidarietà: molte persone, infatti, non possono permettersi di «ignorare» il fascismo, perché è il fascismo a non ignorarle, le va a cercare, le colpisce. Soprattutto loro vivrebbero meglio, senza i fascisti e i loro reggimoccolo[1].

Senza bisogno di riepilogare le ragioni del Si e del No, con il rischio di una deriva psichica che ci riporta ai tempi del pre-referendum costituzionale (siamo in tempi di anniversario), andiamo a leggere qualcosa su Casapound. Se non basta constatare che “fascisti” e “democratici” sono due termini contrari e che, se accostati, generano un raccapricciante ossimoro, diciamo apertamente che gruppi come quello in questione annoverano nel loro gotha personaggi dalla spiccata vocazione anti-democratica. Andiamo a studiare i programmi dell’ “unico partito che può portare la sveglia” ai “burocrati, ai passacarte e ai corrotti di ogni colore”. Andiamo a leggere le interviste del leader di CPI, (“Lei è fascista? Certo!”) che dichiara le leggi razziali un “grave errore perchè hanno allontanato gli ebrei dal fascismo”; che rivendica l’eredità del fascismo ma non vuole tornare indietro[2]. Andiamo a sfogliare le pagine della brochure di un partito che annovera tra le sue iniziative “Radio bandiera Nera”, “proteste contro i centri di accoglienza”, “manichini impiccati in tutta Italia”, “Statue incappucciate” senza citare, in 20 pagine, neanche una volta la parola fascismo. Leggiamo i comunicati in cui sconfessano l’orientamento xenofobo per scrivere, due righe sotto, di barricate innalzate sul territorio per sconfiggere il business dei falsi-immigrati ordito dalle onlus catto-comuniste (?!)[3].

Ma… è proprio questo il punto! Il fascismo è un dispositivo che fabbrica a ciclo continuo falsi problemi  e false soluzioni a quei problemi, quindi false al quadrato. Il fascismo è una «macchina mitologica» che produce bufale diversive, descrive nemici fittizi, addita capri espiatori. Il fascismo intercetta pulsioni ed energie  malcontento, voglia di gridare, di ribellarsi, di organizzarsi, di fare cose insieme  e le incanala in conflitti surrogati, sperperandole, dissipandole. Cos’altro sono le barricate contro l’arrivo in paese di profughi (spesso minorenni), cos’altro sono le mobilitazioni contro la «teoria del gender», il «Piano Kalergi», «le ONG», lo ius soli che avvierà la «sostituzione etnica», i «35 euro al giorno agli immigrati»? Cos’altro sono i demenziali complottismi su Soros (l’ebreo!) che paga tutto e tutti, cos’è tutto questo, se non anticapitalismo deviato e aberrato? Sempre attuale la massima di August Bebel: «L’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli». Il razzismo è l’anticapitalismo di chi è reso imbecille dalla macchina mitologica fascista[4].

Poi, leggiamo la nota di CPI in merito alla polemica anconetana, dove le proteste vengono definite “puerili” e l’intera questione viene ridotta a iniziativa culturale. Ma guarda te se con tutti i problemi che ci sono, proprio su questo bell’evento culturale vi dovete accanire? Che poi, ad Ancona non si fa mai niente, una volta tanto che c’è un bell’evento culturale. Niente di nuovo. I fascisti per avere agibilità devono ricorrere ad eufemismi e mascheramenti, arrampicate sugli specchi e un, due, tre stella! Devono occultare il loro pensiero perchè consapevoli di non avere agibilità se scendono in piazza con il fascio in mano. Come quello che espone la bandiera RSI a Marzabotto dopo un gol, per poi dichiarare che lui non sapeva che a Marzabotto, ma no che non lo sapevo figurati, perchè si è offeso qualcuno?

Oltre all’eufemizzazione della violenza squadrista delle proprie teorie e pratiche, la strategia si completa con la messa in moto di dispositivi argomentativi tramite cui sfornare a ciclo continuo nuovi simulacri del nemico. Un nemico evocato talmente in alto – il mondialismo, la migrazione e altri temi-ombrello – che alla fine suggerisce a i fascisti 3.0 forme d’azione rivolte sempre, guarda caso, verso il basso. Ripercorrere la strategia comunicativa di CPI significa anche dover considerare anche la storia del ventennio e dell’ascesa fascista al potere. Il fascismo propaganda una falsa rivoluzione: blatera di «mondialismo», di «poteri forti», di «plutocrazie», di oscuri complotti «là in alto», ma  guardacaso  colpisce sempre in basso. Se la prende coi deboli, coi marginali, coi più sfruttati e ricattabili, con le minoranze, i “disturbanti”, gli incollocabili, perché la sua “rivoluzione” è un mascheramento della guerra tra poveri: guerra dei poveri contro i più poveri, dei penultimi contro gli ultimi, del ceto medio pavido d’impoverirsi contro il ceto medio già impoverito, e del ceto medio impoverito contro la working class  — che è sempre più multietnica e meticcia, quindi a maggior ragione!

Riempiendosi la bocca di “rivoluzione”, i fascisti distrussero ogni organizzazione rivoluzionaria, uccidendone i membri o costringendoli all’esilio, facendo piazza pulita per conto dei poteri costituiti. Parlando del «popolo lavoratore» e ostentando pose “antiborghesi”, si fecero pagare dalla grande borghesia per colpire, sovente uccidere, i rappresentanti dei lavoratori. Cialtroni in ogni fibra del loro essere, continuarono a baloccarsi con vuoti proclami “anticapitalistici” anche molto dopo la presa del potere, a regime consolidato, quando il fascismo era ormai la forma politica del capitalismo italiano e il braccio politico di Confindustria. Lo ha raccontato nel modo migliore non un marxista, ma un liberale, Ernesto Rossi, nel suo classico I padroni del vapore. La collaborazione fascismo-Confindustria durante il ventennio (1955, ripubblicato da Kaos nel 2001).

Il fascismo è un fascio di false soluzioni a problemi veri falsificati. False soluzioni che retroagiscono sui problemi veri, aggravandoli[5].

Nel caso di Ancona, siamo di fronte all’evoluzione recente della strategia comunicativa: ormai l’agibilità politica è invocata come un sacrosanto diritto da Casapound, che si colloca quindi sul piano di tutte le altre forze politiche. Tramite l’effetto diversivo creato dal “discorso culturale”, quelli della tartaruga continuano ad occultare i valori che animano il loro fare, costruendo contemporaneamente nuovi simulacri del nemico che – come abbiamo visto – ci portano direttamente al cuore del loro intento. Un lugubre ballo mascherato in cui i nuovi fascisti, più che gli arditi del menefrego, sono diventati un movimento metamorfico che organizza tentativi di radicamento nel territorio. Provando, di volta in volta, a salire sul carro del dibattito che più gli consente di poter legittimare i propri valori, altrimenti banditi dalla scena democratica.

Per intenderci, non dobbiamo neanche fronteggiare argomentazioni come: ma i contenuti del libro possono interessare qualcuno[6], magari Casapound ha fatto anche cose buone. Bè, a questo punto anche LVI ha fatto anche cose buone. Non nascondiamoci dietro un dito. Casapound è un movimento che, come abbiamo visto, si richiama esplicitamente alle pratiche e ai valori del ventennio.

Siamo di fronte ad uno strabismo che Casapound riesce a governare bene, anche grazie alla carenza di anticorpi “sociali”. Risulta abbastanza evidente la contraddizione di chi si dichiara apertamente fascista mentre si proclama difensore della democrazia. Quale democrazia? A questo proposito va rilevato che, in molti casi, quelli di Casapound confondono i concetti di patria, sovranità, democrazia in un cocktail sovranista da somministrare nei salotti del Bel Paese. La domanda che dobbiamo farci ora è: quali sono i temi che consentono ai fascisti di prendere parola e di avere una legittimazione pubblica del proprio pensiero? Parliamo solo di macro-tematiche, cioè di temi e figure che circolano sulla scena informativa e vengono com-presi in temi-ombrello che, di fatto, non esistono in quanto tali (provate un pò a fare un giro in centro e incontrare “LA migrazione”, “IL degrado”, “LA sovranità”)? O di problemi mal posti da cui scaturiscono discorsi aberranti? Il fatto che anche questi soggetti riescono a legittimarsi non rivela delle lacune nel nostro sistema democratico?

Il problema sembra, a questo punto, quello di riformulare l’approccio a questioni che, se continuano ad essere affrontate con le prospettive attuali, offrono spazi di agibilità e servono da legittimazione (non solo) per i fascisti.
“Evidentemente le priorità della città di Ancona si riducono alla presentazione di un libro.” Scrivono sibillini in una nota quelli di Casapound. Evidentemente, e grazie al cielo, la città di Ancona ha capito che sotto (o dietro) la presentazione di un libro si nasconde un baratro. E (forse) qualcuno si è svegliato poco prima di sprofondarci dentro.

Enrico Mariani

 

 

[1] Wu Ming 1Antifascismo e anticapitalismo nell’Italia di oggi. Note sul conflitto surrogato e quello vero. Disponibile qui: https://www.wumingfoundation.com/giap/2017/11/antifascismo-oggi/
[2] Intervista del 15 novembre 2017 a Simone Di Stefano, Corriere della sera. Disponibile qui: http://www.corriere.it/politica/17_novembre_15/casapound-di-stefano-fascisti-picco-ascolti-tv-ad11f0d8-ca3c-11e7-bae0-69536c65a470.shtml
[3] https://www.docdroid.net/iEyLzrj/brochurechisiamo.pdf
[4] Wu Ming 1, Antifascismo e anticapitalismo nell’Italia di oggi
[5] Ibidem
[6] http://www.anconatoday.it/politica/casapound-fascismo-avvocato-toccaceli-ancona.html

 

Vicolo cieco

Da Trebbio a Castelsantangelo sul Nera

Il bagliore mattutino alle nostre spalle è una lama che incide le rive del lago mentre saliamo verso Trebbio. La strada che attraversa il borgo antico, compromesso in gran parte dai sismi di ottobre, acquista, ogni volta che la vedo sempre più, le sembianze di salotto della comunità resistente. Il comitato di accoglienza fiastrino, in una condizione di emergenza ormai stanziale, è schierato e pronto a lato della SP98. Sappiamo che la topografia di Trebbio si sviluppa, da sempre, lungo l’arteria principale che l’attraversa; ora però il paese è sceso in strada, questo chiede il contesto. Il paese scende oltre il pianerottolo e reclama spazio di vivibilità. Ed ecco quindi l’ufficio temporaneo del parco Nazionale dei monti Sibillini, davanti alla struttura inagibile (da fuori non si direbbe) del Museo del camoscio; ecco la pizzeria dei fratelli Polverini, che è tornata operativa a pochi metri dalla struttura originaria; ecco le poste, il market di Vinicio e il Bar Fiastra, dietro la banca, la farmacia, un altro bar. Fiastra è quello che si definisce “comune sparso”, 543 abitanti in otto frazioni, Trebbio ne è il capoluogo.

Ho lasciato un pezzo di cuore sulla strada che da Fiastra porta a Visso passando per Cupi. Il paesaggio è un miracolo e la strada lo insegue mutandone continuamente prospettiva. Da passeggero, Vespa offre infinite possibilità e prospettive sulle valli che circondano questa striscia di asfalto. Ogni punto apre una gamma di punti di vista su ciò che lo circonda: ogni cosa ha una sua visuale in soggettiva che interpreta il paesaggio e che noi, a nostra volta, dobbiamo re-interpretare con i nostri occhi.

Oggi siamo preparati, il checkpoint Visso non sarà un ostacolo. Non basta dire che si conosce qualcuno a Visso o Castelsantangelo, bisogna avere un motivo valido per passare. Oggi l’abbiamo: pranzo prenotato all’Erborista.

Certo che la definizione di “motivo valido” risulta problematica davanti all’isolamento in cui si trovano certi luoghi. É più valida una visita agli sfollati che vivono nelle roulotte o una prenotazione a pranzo? E quale validità, se non l’occasionalità di una sosta quotidiana, può avere un caffè al bancone del Capannaccio di Castelsantangelo?

Me lo chiedo mentre ci fermiamo a miscelare ai piedi del borgo. Non l’ho mai visitato e ora ho a disposizione solo questa veduta dalla strada. Provo a indovinare la disposizione delle case, la forma delle strade, il criterio urbano del borgo. É una sensazione mai provata perché l’oggetto è lì, visibile e allo stesso tempo impenetrabile allo sguardo, si concede e si cela, sovrasta ed è sovrastato dalle mura difensive del tredicesimo secolo. Ho sentito parlare della ricchezza artistica e architettonica: i numerosi edifici e chiese, le torri e i castelli.

Guaita Montanea era il nome di Castelsantangelo, quando i potentati di Visso si estendevano ben oltre i confini dell’attuale Comune e disponevano di cinque Guaite, ovvero, dal provenzale guaita e dall’alto tedesco antico watha, colui che fa la guardia, che sta sveglio a guardare. Ecco le radici urbane, già interrelate, di questi luoghi: Guaita Pagese, detta anche di Macereto, che comprendeva i villaggi di Cupi, Aschio e Macereto; Guaita Uxitae, l’attuale comune di Ussita; Guaita Villae, che comprendeva i nuclei abitati che oggi costituiscono Villa S. Antonio; Guaita Plebis, l’attuale centro di Visso ed il vicino Borgo Vallopa, oggi Borgo San Giovanni; e la Guaita Montanea, dove ci troviamo ora. Bisogna tornare indietro nel tempo per avere notizie di Castelsantangelo sul Nera come un paese vivace, di circa duemila abitanti fino ai primi anni del Novecento, distante appena due chilometri da Vallinfante, dove nasce il fiume Nera. Ogni edificio e opera che ne costituiscono, fino ad oggi, il tessuto urbano devono essere considerati a partire dalla storia e dai processi socio-culturali avvenuti in queste zone. La cittadella muraria a forma triangolare è segnata all’apice dalla Torre Maestra e ai due angoli della base da Torre di San Martino e Torre di Santo Stefano. Nel medioevo Castelsantangelo dipendeva dal castello di Norcia fino al 1255, quando fu inglobato tra le Guaite di Visso. “Solo nel 1522 Castelsantangelo si liberò definitivamente del protettorato di Norcia, quando quest’ultima venne battuta dai vissani e dagli stessi soldati di Castelsantangelo, nella battaglia del Pian Perduto. Di quel periodo si conservano le mura e l’impianto urbanistico del XV secolo.”[1] Durante il Basso Medioevo, all’interno della cinta muraria “vennero costruite case, chiese, ricoveri per le bestie, magazzini e botteghe: un luogo sicuro dove la vita civile era regolata dall’amministrazione della Guaita Montanea”.[2] La Guaita domina severa il borgo, così come gli echi solenni dei personaggi e dei luoghi della Storia e delle storie che hanno avuto luogo qui. Tutt’altro che leggende o astrazioni, per molti il radicamento nel territorio ha le radici proprio nelle tradizioni e nei racconti di centinaia di anni fa.

Il Capannaccio è una delle ultime guaite sulla strada che arriva da Visso e conduce fino a Castelluccio di Norcia, arteria di fondamentale importanza per chi abita a Castelsantangelo, Ussita e dintorni, chiusa al transito da ottobre. Di fatto questa zona è un vicolo cieco, ci si può arrivare, ammesso e non concesso il permesso scritto, ma poi da qui bisogna tornare da dove si è venuti. Il titolare del Capannaccio parla in confidenza con due poliziotti, la sua parlata de Magerada compone splendidi accordi con il loro accento romagnolo da Riviera adriatica. Anche noi siamo al bancone del bar, «me sentono questi, vedrai che ie faccio na bella lavata de capo, se non riapre sta strada cosa devo fa…». In effetti ad un bar ci si passa, non mi è mai capitato di dover prenotare un caffè o una birra. Purtroppo la dinamica che si crea con i permessi scritti non concede spazio per l’incontro fortuito con le persone e le attività del luogo. L’isolamento stradale genera quello umano: vivere nel vicolo cieco in una condizione di emergenza permanente.I tornanti che, passando per la frazione di Castelsantangelo Gualdo, salgono all’Erborista sono fiancheggiati da cumuli di macerie, che restringono via via la carreggiata fino a concedere il passaggio ad una vettura per volta. Ad un certo punto un’inferriata nega l’accesso a Gualdo, un’unica strada attraversa il borgo e le case, distrutte. Se si guarda verso l’Umbria, il colle che accoglie Gualdo declina e poi si erge nuovamente fino ai quasi duemila metri del Monte Cardosa. Gualdo è un paese fantasma, così lo hanno chiamato sui giornali. Si respira silenzio e parlano gli scorci di bellezza unica, lasciati liberi da un piano crollato o concessi da una trave spezzata. Un gattino morto in mezzo alla strada, stramazzato sulla soglia di una delle poche case rimaste in piedi. Mi sale un brivido e affretto il passo.

Resistenza a Castello

Lo zoccolo duro dei residenti di Castelsantangelo sul Nera vive proprio ai piedi del colle che sale a Gualdo: all’interno di un’area camper trovano posto una ventina di roulotte. Delle casette a Castelsantangelo, fatta eccezione per quelle che abbiamo visto prima a Gualdo, non c’è neanche l’ombra: chi ha passato l’inverno qui lo ha fatto, da eroe, nelle roulotte.
Sotto un tendone c’è la grossa tavolata dei pasti, attorno ad essa altri container destinati a cambusa, cucina, sala da pranzo interna. Sono le tre del pomeriggio e troviamo il cuore pulsante di Castello ancora attorno al tavolo. Si respira convivialità, qualcuno sta già pensando alla cena: «sempre a magnà pensamo eh!» «Prima i terremoti ce dicevano che erano ogni venti, trent’anni, ora stanno a diventà sempre più corti, e botte forti. Quella del 26, chi se l’aspettava, è andata bene, il sindaco il 29 ci ha dato l’ordine di evacuare. Il 30 è arrivata la botta. Io c’avevo l’albergo, qui ad un km, non volevo mollare, non me ne andava di andare via. Poi quando ci hanno dato l’ordine… Il 30 dopo di quella scossa, dalle sette alle due un continuo.»
Laura, la titolare dell’albergo e ristorante “Dal navigante” non perde le speranze di poter vivere e lavorare a Castelsantangelo. Ha visto il suo albergo preso nella morsa del terremoto: «il terremoto, a vedello da fori, è peggio, è più impressionante. Noi fuori l’albergo nostro vedevamo che se spostava de un metro, quelli che dicono che se toccano le case, è vero. Dentro è male, ma fuori il terremoto fa anche più paura.»

C’è una sorta di felicità in ipoteca negli sfollati di Castello, una serenità temprata, leggera e non frivola, della propria condizione. Resistere nel luogo della propria vita per recuperare la normalità quotidiana, il rapporto diretto con la propria memoria. Memorie in ipoteca di progetti a loro volta in ipoteca, fondati su virtualità e mancanza di comunicazione tra istituzione e cittadini. Le cose reali sono le case, le rovine o le macerie stramazzate al suolo e mai raccolte. Case e macerie hanno entrambe quest’aura di sacralità: non si può entrare nelle case, né si toccano le macerie. Tutto rimane in silenzio, quando ci sarebbe bisogno estremo non di parole, ma di qualcuno che prenda parola.

Aspettiamo Anna, conosciuta a Visso durante l’evento “Tutti agibili per un giorno”, è lei che gestisce la pagina Facebook dell’associazione “Un aiuto concreto per Castelsantangelo sul Nera” con cui abbiamo preso i contatti. Quando arriva ci sediamo all’ombra di alcuni alberi al margine dell’area camper, vicino allo scorrere di un’affluente del Nera. Per noi è molto importante ed emozionante conoscere qualcuno che si scontra tutti i giorni con la realtà determinata dal sisma. Oltre a questo, la pagina Facebook dell’associazione svolge un grande lavoro di informazione e aggiornamento sui luoghi del sisma, lavoro da cui abbiamo attinto molte notizie prima della partenza.«Volete conoscere la realtà di qui?»
Il container che ci troviamo di fronte è la sala da pranzo, non utilizzata per il grande caldo di questi giorni. C’è anche la tv con decoder e parabola, comprato dall’associazione. La raccolta fondi prosegue. Le varie roulotte qui, all’ottanta per cento sono tutte state procurate tramite l’associazione. Siamo una cinquantina qui nell’area camper, all’incirca. Autorganizzati, nonostante tutto.[3]
É l’ora della siesta, le roulotte sono roventi.

Per avere una proporzione dei danni a Castelsantangelo sul Nera, basta sapere che il novantasette per cento delle strutture è inagibile.
«La comunità castellana, chi è rimasto a Castello, attualmente è tutta qui nell’area camper. Ci sono famiglie, tra cui la mia, che sono rientrate in casa. Ma io assolutamente non faccio testo, perché ho casa agibile. Sono nel tre per cento. Per il resto ancora sfollati sulla costa oppure su strutture più all’interno.»
I residenti effettivi al trenta ottobre erano all’incirca duecento. Effettivi significa quelli residenti, fissi. Tra queste, purtroppo soprattutto persone anziane hanno già scelto di non tornare, seguiti nella maggior parte dei casi dai figli. C’è anche chi ha deciso di stabilirsi sulla costa, in strutture per anziani. Anche alcune famiglie di giovani hanno scelto di non tornare, «perché non tutti, fortunatamente, ma il pensiero di molti è: che torno a fare lì, che non c’è più nulla?»

A scuola si andava e si continuerà ad andare a Visso. Le scuole di Visso sono le uniche del cratere ad essere agibili, ricostruite dopo il sisma del novantasette, sono perfettamente intatte. Anna ha due figlie, ci racconta di un’assemblea per le scuole, a Tolentino, presenti il sindaco di Visso Pazzaglini, il preside e un rappresentante del comune di Ussita. Si è detto che la scuola ripartirà il quindici settembre a Visso: elementari, medie e scuola dell’infanzia, indipendentemente da quanti alunni si iscriveranno. Verranno predisposte anche delle navette per chi si trova ancora sulla costa in attesa della consegna delle casette.

Le parliamo di Pievetorina, dei container che abbiamo visto lì e di quelli che abbiamo visto nell’Alto nera. Anna dice che è e sarà fondamentale adattarsi e lottare, dopo una tragedia come questa nulla è come prima. Molto spesso poi chi si prodiga di più per dare una spinta alla ripresa è esasperato dai tortuosi passaggi burocratici. Secondo lei, ultimamente c’è più movimento intorno ai lavori, si intravedono i primi progetti. É importante che si riparta prima possibile ovviamente: la stagione estiva ormai non vedrà gli interventi per ristabilire una situazione dignitosa (siamo negli ultimi giorni di luglio), ma diventerà sempre più necessario fare in fretta, soprattutto per i lavoratori.

Altra questione è quella della mobilità. Con la Valnerina (SP209) e la strada per Castelluccio chiusa, senza un motivo valido non si arriva a Castelsantangelo.
«Secondo me il pass a Visso ci ha penalizzato molto. Sembra che Castelsantangelo è un vicolo cieco, sei chiuso.»
La sensazione è questa, per parecchi. Se non hai una motivazione più che valida, per esempio una prenotazione in uno dei ristoranti in attività, non passi.
«Oppure, a dire che state a secco con la macchina e che vieni a fa rifornimento. C’è da ingegnarsi. Ci blocca immensamente il fatto che la strada per arrivare a Castelluccio è chiusa. Ci blocca proprio tanto. Tanto l’economia castellana, ad esser sinceri, per il settanta per cento è da sempre basata sul passaggio di chi va a Castelluccio e ritorna. Ora è un vicolo cieco.»
Gli scambi e gli spostamenti tra i borghi costituiscono una ricchezza “materiale” e una delle componenti fondamentali dell’identità: se ogni borgo o comune, per quanto piccolo, rivendica i propri valori e la propria autonomia rispetto agli altri; ci si rende conto allo stesso tempo che ogni borgo trae il suo valore dal territorio in cui si trova.

Questioni di Campanile

É questo un territorio in cui i confini tra Comuni si oltrepassano, a volte, senza neanche accorgersene. Cartelli posti lungo le preziose strade, oppure sul costone di una montagna o sulla sponda di un fiume, rompono formalmente la contiguità tra valli e cime. Le strade sono ponti che, nella fisicità dell’incontro con queste terre, superano e permettono di superare le soglie amministrative dei confini.
C’è bisogno, ora più che mai, di tornare a percorrere le strade, tornare e ritornare, arrivare al paese e fermarsi, poi ripartire. C’è bisogno, ora più che mai, di ripristinare la rete di scambi, “materiale e immateriale”, tra le persone che vivono le diverse zone del cratere. Fare rete come necessità e strumento della ripresa di tutti i Comuni.

Fra Visso e Castelluccio di Norcia c’è una rivalità che affonda le radici secoli fa. I nomi dei luoghi raccontano storie, sono porte di accesso che cambiano la prospettiva, consentono un accesso nelle profondità del territorio.
Prendiamo la vicenda del Pian Perduto. La Battaglia del Pian Perduto fu l’apice di secoli di lotte tra Norcia e le guaite di Visso (in particolare le cronache parlano di Gualdo) per il controllo della vasta spianata, denominata anticamente Pian di Cànatra.
Esistono diverse versioni della famigerata battaglia del 1522: quella più pittoresca vuole che appena seicento Vissani abbiano sconfitto l’armata di seimila soldati di Norcia. Una volta costretti alla ritirata, i Nursini si sarebbero lanciati all’attacco di Gualdo dove furono respinti, con lancio di pietre e macigni, dalle donne rimaste in guaita.
La contesa nel corso del tempo si è trasferita sul racconto di questi fatti: basta pensare che la versione nursina di questo episodio narra che le Gualdesi si sarebbero concesse ai soldati di Norcia, disorientandoli e favorendone l’accerchiamento da parte dei Vissani.
Torniamo alla toponomastica e all’identità: Pian Perduto, perduto da Norcia e tutt’ora in provincia di Macerata, porta impresso nel nome un coacervo di storie.

Anche secondo Anna l’origine dell’inimicizia tra Visso e Castelluccio di Norcia va fatta risalire alla battaglia del Pian Perduto. Il campanilismo è ancora presente e influenza le relazioni tra i due borghi. Stessa cosa non si può dire tra Castellani (di Castelsantangelo sul Nera) e Castellucciani: «c’era molto scambio, amicizia. Un’alleanza dettata anche dalla vicinanza, siamo ad un quarto d’ora… è una strada bella tortuosa, però magari il Castellano andava a Castelluccio a prendersi il caffè.»

Le chiediamo se i rapporti siano migliorati, o peggiorati, con il cratere. Ci spiega che in queste situazioni la convivenza non è una scelta e spesso è forzata da fattori esterni. Possono capitare battibecchi ed è normale che ci siano. Chi, come lei, è stato fino a giugno sulla costa, ha ben presente la difficoltà nel trovarsi a convivere in albergo o in villaggi turistici, con i ritmi e riferimenti della propria vita lontani, o distrutti. É già difficile convivere a stretto contatto con gli amici di una vita, figuriamoci con persone che non conosci.
I retaggi passati alimentano ancora campanilismi che dividono con la pretesa di unire. Bisogna iniziare a pensare i Sibillini (e il territorio contiguo fino al Gran Sasso e ai Monti della Laga) come un territorio che trae valore non dalla bellezza del singolo borgo e delle sue meraviglie, ma dalla costellazione di borghi e meraviglie da cui è composto. Di conseguenza uno strumento per rafforzare le alleanze tra i territori è considerare l’enorme patrimonio culturale e naturale come un valore potenziale per ogni borgo o paese dei Sibillini. L’evento del 24 giugno, “Tutti agibili per un giorno”, va proprio in questa direzione: superare le tragedie dei singoli, non dimenticando ma rielaborando l’accaduto in vista di un progetto. Ripartire dai luoghi, dal territorio che ci unisce per sviluppare nel lungo periodo il superamento dell’emergenza. In quell’occasione si sono creati dei tavoli tra imprenditori o produttori locali e esterni, con le varie attività suddivise tra strutture ricettive, allevatori e attività agricole, ristorazione. I contatti proseguono e in parecchi sono soddisfatti.
La confusione mediatica e la mancanza di chiarezza nel rapporto dell’amministrazione (a partire dal commissario Errani) con i cittadini hanno invece alimentato la tendenza a rinchiudersi nel proprio orticello. Non solo tra paesi diversi, ma anche tra residenti e proprietari di seconde case. É delle ultime settimane il dibattito su chi debba avere la precedenza nella ricostruzione. La risposta sembra ovvia, se non fosse che il problema non si dovrebbe neanche porre: c’è estremo bisogno di costruire per entrambi, residenti e seconde case. Per Anna è lampante: senza le seconde case questi borghi muoiono. Lungi dal turismo di passaggio, chi ha la casa qui vive il luogo e vi partecipa con relazioni destinate, in molti casi, a durare. Molti dei proprietari di seconde case a Castelsantangelo sono romani, quasi tutti originari di qui. Poi ci sono anche persone che si sono innamorate del posto e hanno deciso di comprare casa.

Per quanto riguarda la ricostruzione, secondo Anna si dovrebbero seguire binari diversi in modo da far fronte all’emergenza di chi ha perso tutto: la prima ed unica casa. C’è una bella differenza, ma sarebbe importantissimo che i due processi andassero in parallelo. Il problema vero è una ricostruzione avvolta in una spessa coltre di nebbia. Per esempio, dice Anna, qui a Castello sono messi peggio di altre zone. Si incomincia ad avere la certezza che il centro storico, Castello alto, non potrà essere ricostruito dov’era.

«Resistere, tornare, adattarsi. La mia volontà è questa. E ricostruire tutto, per quanto possibile. Non sarà facile, ma obbiettivamente neanche prima lo era.»

Francesco Mazzanti e Enrico Mariani

 

 

 

[1] Dal sito del Comune di Castelsantangelo sul Nera: http://www.comune.castelsantangelosulnera.mc.it/servizioalcittadino/index.php/le-torri/10-torri/83-le-mura

[2] S. Pierangeli, Castelsantangelo sul Nera. La storia, i simboli le emozioni, 2009.

[3] É del 10 agosto la notizia, data dalla stessa associazione “Un aiuto concreto”, della rimozione dei bagni chimici forniti dal Comune. Nel foglio che hanno trovato attaccato alla porta dei bagni, la motivazione (che suona come una beffa) addotta è la “fine dell’emergenza”. Alcuni giorni dopo l’operazione è stata annullata dalla Regione.

Le strade e il senso del luogo: Pievetorina e Visso

Siamo quasi a Visso: ampie curve in leggera discesa immerse nel verde, poche macchine a quest’ora. Solo Vespa, con il suo tono al solito vivace, turba il silenzio mentre ci porta dolcemente fino a Villa Sant’Antonio, frazione attraversata dalla strada che conduce a Visso. C’è un semaforo provvisorio all’altezza della prima casa. Osserviamo in silenzio, da un lato e dall’altro, le case. Alcune demolite, sono dei cumuli in un ordine straziante che segna il ciglio della strada. Altre sono ancora in piedi nonostante pesanti crolli: lasciano che si immagini la loro forma originaria e i possibili usi, abitudini, gesti di chi le viveva. Il traffico scorre nel mezzo di una catastrofe.
Ci fermiamo alla Pasticceria Vissana. A pochi metri c’è la zona rossa, il presidio dell’esercito e l’ufficio dove è possibile avere il permesso per transitare. Questa è una strada molto importante: passa dentro Visso, prosegue per Castelsantangelo sul Nera e da lì fino a Castelluccio di Norcia. Il collegamento tra questi borghi è vitale: ognuno di essi è un gioiello, ma non può brillare solo di luce propria. Ai tavolini fuori della Pasticceria si parla di questo, quando riapre ‘sta strada. C’è un gruppo di motociclisti anconetani che chiede conferma, per raggiungere Castelluccio l’unica è passare da Norcia.

Incontriamo Matteo, 19 anni, vissano. Ci siamo conosciuti a Tutti agibili per un giorno, l’evento del 24 giugno scorso al Laghetto di Visso. Era stato invitato a raccontare la sua esperienza e a leggere «Derby: una normale domenica di anormalità a Visso», il suo articolo premiato alla quinta edizione del concorso regionale “Il giornale della scuola” promosso dall’ordine dei giornalisti delle Marche. È fresco di esame di stato, mi hanno fatto passare con 96. Non è stata certo la maturità il problema centrale di questo periodo. Impegnato tra spesa, animali e trasloco riesce a ritagliare una mezzora. Gli chiediamo come va, qual è la situazione del paese e di chi resiste lì.
Colpisce lo sguardo tranquillo, la pacatezza nello spiegare le difficoltà, gli intoppi, le imprese quotidiane di chi vive la realtà di Visso. Per l’Università sta pensando a Pisa, facoltà di Fisica. Parliamo anche dei molti eventi che ci sono in questi giorni, dai concerti di RisorgiMarche al Terreinmoto a Fiastra. Poi il discorso cade sugli argomenti più vicini, tangibili.
Le casette sono in costruzione. Alcuni, nella zona del campo sportivo, la parte alta del paese, riescono ancora ad abitare in casa. Le roulotte di chi è sfollato sono lì vicino, davanti agli spogliatoi del campo. Tutt’intorno c’è emergenza tangibile. Non sono tanto i gesti o i comportamenti delle persone tra loro, quanto ciò che la gestione dello spazio implica e significa.
A quasi un anno dalla data in cui Visso è stata colpita, siamo su tavolini davanti ad un posto di blocco, dietro al quale c’è la città distrutta, non agibile. È anche per questo che, anche con Matteo, finiamo per parlare di strade. Ci suggerisce di andare sulla Valnerina, la strada che porta a Roma, interrotta da una frana. Proseguiamo a piedi in direzione opposta a Castelsantangelo. Proviamo a capire quali danni abbia subito il ristorante a bordo della carreggiata, osservandone a lungo le pareti. Dietro, un costone di roccia declina nella vegetazione spontanea, pietre in ordine sparso lungo il tragitto. Superiamo due sbarramenti di piloni, dopo circa un kilometro la strada è invasa dalle acque del Nera, esondate a causa della frana di crollo del versante sinistro. Di quel tratto della Valnerina rimane uno scenario irreale: un laghetto in cui s’immerge il guardrail.

Torniamo a prendere Vespa, è ora di pranzo. Avevamo sentito parlare del Vecchio Molino a Casavecchia di Pievetorina. Il ristorante non ha subito danni: riuscendo a lavorare anche durante l’inverno è diventato un’istituzione per le squadre dei Vigili del fuoco e della Protezione civile, arrivate un po’ da tutt’Italia. Tagliatelle al tartufo cantanti e grigliata poetica. Fuori fa un gran caldo e il fresco del locale consente di confrontarsi con piatti non proprio estivi, mentre la tv racconta i romanzi del calcio estivo.
Conosciamo Loredana, lavora in sala e ci serve, battuta pronta e gentile. Ci prende in simpatia sin dall’inizio e aspettiamo che sia un po’ meno indaffarata per fare due parole. Si scherza sulla quantità di persone venute a mangiare a pranzo il giovedì, pensavate che ero fuggita eh? Non ci vedevamo da un po’! Le chiediamo della sua esperienza, di come sono andati questi mesi. Stancanti, appena posso vengo giù dalle parti vostre, a Senigallia. La perdoniamo per l’approssimazione geografica, guarda che se vai un po’ più giù verso Ancona c’è il Conero, Mezzavalle… Ci vediamo lì, mi raccomando eh!

Decidiamo di tornare verso Fiastra passando per Appennino, frazione di Pievetorina arroccata lungo la strada che porta a Cupi. Un giro nella parte alta del paese, segnata da un arco, svela la vista magnifica di balconi che si affacciano sui Sibillini. Ci inoltriamo tra le vie in salita e le scalinate tortuose che aprono scorci. È come se tutti se ne fossero andati in fretta, lasciando sparso qua e là ciò che stavano facendo. Solo le case parlano, seguono il ritmo scosceso del paese, si adeguano al saliscendi. Torniamo sui nostri passi, due signore passeggiano. Una di loro ha appena comprato un gelato da un bar ambulante che la raggiunge in paese. Le diciamo di tenere duro mentre s’incammina verso la sua nuova casa. Quella di prima, all’ingresso del paese, è inagibile.

A Fiastra è già iniziato Raccontare il terremoto presso il tendone dell’area dibattiti del festival Terreinmoto. Sono presenti, tra i relatori e il pubblico, gli scrittori e i giornalisti da cui abbiamo appreso la maggior parte delle informazioni prima di partire. Si parla di molti argomenti: la scarsa o assente comunicazione tra amministrazione e cittadini; i ritardi nella costruzione e consegna delle Sae; le sovrapposizioni di responsabilità tra Regione, Provincia e altri enti; il silenzio assordante dei media mainstream. Anche se in linea di massima si è d’accordo sui ritardi e sulla cieca pesantezza della macchina burocratica, è vero dibattito.
Togliamoci dalla testa due stereotipi ingombranti: il terremotato autocommiserante e il montanaro ignorante mai uscito dal proprio paese. Sono presenti terremotati e montanari, si, ma prima di tutto persone che espongono e discutono competenze e idee.
La scelta di raccontare il terremoto suscita in primo luogo un problema: capire quale sia lo stato delle cose, cercare di rendere conto della realtà sociologica e antropologica.  Per non rendere tale descrizione una sterile fotografia, è necessario integrare a essa una riflessione seria sul senso della trasformazione di questi luoghi. Bisogna fare seriamente i conti con il fatto che il terremoto ha determinato, in molti casi, modifiche irreversibili del territorio; fare i conti con il fatto che da molte parti «non si potrà ricostruire dov’era e com’era». Per questi motivi raccontare il terremoto diventa da un lato la narrazione della lotta, della resistenza degli umani; dall’altro la riscoperta del luogo, dei possibili che il territorio e le cose tra loro ci concedono e negano. Fino a chiudere il cerchio: perché il modo in cui si sviluppano le lotte va a caratterizzare i luoghi, ha bisogno di luoghi in cui imprimere i propri significati.

Il festival si sposta al Castello Magalotti. In programma c’è il reading di Wu Ming 2 GODIIMENTI – Come inceppare la grande opera e vivere felici. Il GODII è la Grande Opera Dannosa Inutile e Imposta.
Prima, di fronte alla chiesa puntellata di San Paolo, c’è il tessuto aereo a cura della polisportiva Ackapawa di Jesi. Sul tramonto mozzafiato di Fiastra una ragazza danza su un trapezio, sospesa a metà tra il lago e il cielo.

Francesco Mazzanti e Enrico Mariani