Navetane. Calcio, passione e scaramanzia (parte 1)

Saliamo sul Tata 47 a Grand Yoff e scendiamo a Grand Dakar. Stade Demba Diop. Con noi ci sono i ragazzi del quartiere Arafat, che fa parte di Grand Yoff. Oggi c’è la semifinale del Navetane: il campionato di calcio popolare del Senegal. O meglio, è la semifinale della zona 7b, che comprende soprattutto Grand Yoff.

Solo Dakar ha 15 zone. In ogni zona, con numeri che cambiano di anno in anno, partecipano circa 10 squadre. Per un totale di circa 150 squadre partecipanti. Ma è solo la prima fase del torneo nazionale.
A seguire una fase ad eliminazione diretta, sempre in città: è la fase departementale. Poi seguono le fasi regionali e, infine, le nazionali. Arrivare in fondo significa entrare nell’olimpo dei calciatori senegalesi. Moussa dice che anche chi sfonda nel calcio internazionale deve passare per il Navetane.
Oggi è un derby, come la maggior parte delle partite che si giocano nelle fasi iniziali di questo torneo. Gli avversari si chiamano Galgui, dal nome del loro quartiere. Arafat e Galgui non sono molto distanti e, da come mi dice Moussa, sarà una partita in cui nessuno vuole perdere.

Riusciamo ad avere i biglietti in mano in brevissimo tempo, una velocità inaspettata che ci sorprende positivamente. Prezzo: 500 franchi CFA. Meno di un euro.
Inizio a guardarmi intorno. Un poliziotto controlla l’ingresso da cui vedo entrare ragazzi con djembe, tam-tam e altri strumenti musicali a me sconosciuti. Finalmente uno stadio, sono due mesi che assisto a partite di calcio nei sabbiosi quartieri o nelle spiagge.

Il match dovrebbe iniziare alle 18 ma sappiamo già che, molto probabilmente, ci sarà da aspettare.
Nessun problema: prendiamo il posto nella tribuna coperta e assistiamo al secondo tempo del campionato cadet. Sono i piccoli che si sfidano ma ad ogni azione lo stadio applaude e incoraggia.
Non c’è differenza nel costo tra i settori e così ci si può spostare liberamente da una parte all’altra: gradinata, curva e tribuna non sono divisi da barriere come nei nostri stadi.
La temperatura è ottima, circa 25 gradi, e si sta facendo sera.
L’assenza di birra ci permette di assaggiare alcuni succhi di frutta congelati, contenuti in piccole buste di plastica trasparente. Il tutto accompagnato da arachidi salate. C’è un viavai di venditori che sembra di stare a San Siro. E in effetti noto che lo stadio è ormai pieno. Ma non è un campionato tra i quartieri? Hai ragione, mi dice Moussa, ma devi sapere che a Dakar si segue molto più il Navetane che la Lega Nazionale.

Assistiamo distrattamente al secondo tempo dei cadet perché chiacchieriamo e ci guardiamo intorno. Osserviamo con piacere il rumoroso mondo che ci circonda.
Però, siamo con gli occhi sul campo quando il numero 10 dell’ASC Yakaar salta un uomo sulla trequarti, scarica all’esterno alto che si trova all’altezza dell’area di rigore, la palla ritorna dentro di prima. Un uno-due che si chiude con un tiro potente di piatto: la rete si gonfia e il portiere, disteso a terra, può solo disperarsi. Intorno a noi si leva il boato, molti si alzano in piedi rincorrendo idealmente la corsa sfrenata del numero 10. E’ bastato poco per emozionarsi.

Continua…

Francesco Mazzanti

Cronaca di una partita (semi)seria

Sono le cinque del pomeriggio e il sole, accompagnato dall’umidità, secca le gole e scalda la pelle. Nonostante ciò ci sembra il momento perfetto per andare in spiaggia. Obiettivo: partita di calcio. Il figlio di Marina, Ernest, viene con noi. Siamo in quattro quindi, con un suo amico che indossa la maglia di Lionel Messi. Ernest invece quella di Ronaldo, è un tifoso del Real Madrid. A vederli camminare da dietro compongono una bizzarra coppia di amici per la pelle.
Come al solito, la spiaggia di Yoff è un campo di calcio continuo. Un po’ per l’umidità, un po’ per la quantità di persone, non ne percepiamo la fine. Pneumatici distrutti, messi in piedi, compongono le porte. La densità di partite è così alta che ogni porta serve sia per un verso che per l’altra. Due portieri si danno le spalle e difendono la stessa idea. Non ci sono linee ad indicare la fine del campo, così si gioca dappertutto. Unica eccezione: touche, quando la palla si arresta sul bagnasciuga. Lì non è più possibile prenderla a calci e si batte la rimessa.

Dopo un po’ che camminiamo in spiaggia decidiamo di fermarci nel campo che ci sembra più interessante. E’ in corso una partita tra due squadre. Così io, Paul e i due piccoli decidiamo di metterne su una. Ci servono altri tre giocatori e sono in molti a venirci incontro chiedendo di giocare con noi. Facciamo scegliere a Ernest e così aspettiamo il nostro turno. Mi spiegano brevemente come funzionano le partite. Un tempo secco da dieci minuti, in caso di parità calci di rigore (tre per squadra). Se una squadra spinge la palla in rete per due volte prima che scadano i minuti la partita termina lì e…avanti il prossimo.
E’ il nostro turno, io e Paul ci osserviamo preoccupati. Sarà una partita dura. Qui nessuno vuole perdere, sia chiaro.

Così ci schieriamo in campo. I nostri compagni sono tre ragazzi che guardo dal basso verso l’alto e che mi sembrano giganti. Iniziamo a parlare il linguaggio universale che accomuna i giovani di tutto il mondo. Non ci parliamo molto ma ci capiamo benissimo. Bastano alcuni movimenti del corpo e delle gambe per intendersi.
Sono già passati cinque minuti. Il nostro portiere salva un gol sulla linea e ripartiamo in contropiede. Ousmane segna per noi. 1 a 0.
A farsi valere è anche il piccolo Ernest, temerario difensore, che si cimenta in scivolate eroiche contro attaccanti che hanno il doppio della sua età.
Sono quasi passati i dieci minuti ma è come aver fatto una maratona. Il sole, couchant, manda riflessi infuocati sull’acqua e penso di avere dei miraggi. Nel frattempo in mezzo al campo passano corridori instancabili, famiglie, gruppi di ragazze che si buttano in acqua. Noto anche un ragazzo che pulisce il suo cavallo in riva al mare. Alcune volte mi confondo e non so a chi passare la palla. Altre volte mi capita di passarla a qualcuno che in realtà sta solo attraversando il campo.
Finita. 1 a 0 per noi. Bisogna giocarne un’altra? Chiedo preoccupato agli altri. Certo, sei stanco vero? Però sei bravo! Mi dice Ousmane. Grazie, ma forse non ho mai giocato con questo caldo. Neanche in alcune giornate di preparazione atletica estiva, penso.
Così ci rimettiamo in campo e, complice la stanchezza comune, prendiamo una sonora batosta. Avrei in mente di stringere la mano al goleador dell’altra squadra per avermi evitato altri dieci minuti.

Sudati dalla testa ai piedi, con la sabbia tra i capelli, ci gettiamo dentro l’acqua calda dell’oceano.
Lasciamo i due piccoli in spiaggia, ci resteranno fino a che il buio impedirà ai loro occhi di percepire una palla.
Ci facciamo asciugare dal vento  e decidiamo di rientrare. Sono le ore più affascinanti della giornata. Quando il sole si nasconde dietro le case e Parcelles è un brulicare di gente. I bambini riempiono le strade, alcune signore grigliano pannocchie di mais, altre cucinano arachidi in una pentola che contiene sabbia. Molti sono alle prese con la preparazione del tè, altri ancora giocano a dama sull’uscio di casa. Alcuni ci chiedono come è andato lo sport. Très fatigué, rispondo stravolto. Così ce ne torniamo a casa mentre il muezzin intona la sua preghiera del venerdì.

Francesco Mazzanti

Breve resoconto di una mattinata senegalese

Esco di casa alle 11 e 30 per andare al mercato Ndior, quartiere Parcelles Assainie, Dakar. Ad accompagnarmi c’è Marina, la donna che l’Università di Dakar ha scelto come nostra mamma senegalese. E’ lei infatti che, tre volte a settimana, ci cucina deliziosi piatti locali e che cerca di mantenere in ordine la casa di tre disordinati studenti europei. Le nostre perplessità e ritrosie iniziali non hanno convinto l’Università e quindi Marina accompagna molte delle nostre giornate, seguita dal figlio Ernest, di 12 anni.
Tutto ciò che mangiamo è sempre fresco di giornata. Comprato sui banconi del mercato, in poche ore è pronto per essere gustato.

Così oggi decido di seguirla. Per arrivare al mercato prendiamo il car rapide. Vivace (a dir poco) mezzo di trasporto locale che, a quanto pare, ha la caratteristica di non avere fermate fisse. Potenzialmente ovunque. Infatti, dopo circa duecento metri, si sente bussare e alcuni ragazzi chiedono all’autista di rallentare per poter salire. Il controllore è un ragazzo che sta in piedi sulla pedana che si trova nell’unico ingresso, posteriore, del furgoncino.
Dentro siamo circa quindici, mi guardo intorno e osservo, sentendomi a mia volta osservato come avviene da due settimane a questa parte. Vicino all’ingresso c’è un signore anziano con le stampelle, accanto a lui una donna, con un foulard rosso e nero, dai motivi floreali, mastica un chewing-gum e mi fissa. Poi ci sono ragazzi e ragazze più o meno giovani. Io e Marina ci sediamo in fondo e, come in un tetris, incastro le gambe tra quelle del ragazzo che siede di fronte a me. Per me è tutto una sorpresa ma mi circondano volti segnati dall’abitudine.
Non abbiamo percorso neanche un chilometro. Stop. L’autista scende. Nessuno ci fa caso. Così aspettiamo circa 10 minuti. Qualcuno sembra lamentarsi. L’autista torna e ingrana le marce salvando il car rapide dalle macchine agguerrite, in coda, che suonano il clacson e che cercano di sorpassarci.

In pochi minuti siamo al mercato. Appena scendo si sente la musica della macchina che accompagna i Baye Fall. Appena mi vedono fanno per venirmi incontro chiedendomi insistentemente qualche moneta. Mi divincolo e con Marina entro nei vicoli del mercato. “Lasciali perdere – mi dice Marina nel suo francese scolastico, proprio come il mio –  non hanno voglia di lavorare e vanno in giro sempre a chiedere soldi a chiunque”. I loro abiti e il loro portamento ha però qualcosa che mi affascina e che, senza dubbio, cattura la mia attenzione.
Marina si destreggia tra le strette vie del mercato, rapida. Provo a starle dietro mentre intorno a me noto botteghe di ogni genere: macellai vicino a venditori di stoffe. Cianfrusaglie per la casa e parrucchieri. Riso, spezie, verdure. Molto spesso non comprendo dove finisce una bancarella e dove inizi l’altra. Mi sento ancora stralunato.
Così saliamo al piano di sopra dalla scalinata centrale del mercato. Si capisce, salendo, che il primo piano ospita pescherie e macellerie. L’odore forte del sangue si mescola con quello del pesce sui banconi. E’ uno stretto confine tra la nausea e il piacere dei sensi.
Oggi si cucina il Tiebou Diene, piatto che necessita di pesce  e che va accompagnato con del riso. Chiaramente è una semplificazione, Marina si arrabbierebbe, lo so.
Così Marina inizia a trattare per il prezzo dei tre esemplari che ci interessano. Dietro ci sono donne che puliscono pesce con delle spazzole che fanno partire pezzi di pelle ovunque. I loro abiti ne sono pieni. Altre affettano pesci spada alti quanto una persona. Ci sono anche tonni, sarde e tanto altro. “E’ tutto fresco” continua Marina. Mille franchi l’uno, mi fa cenno. Perfetto. Può andare.
Le trattative hanno tempistiche non calcolabili e, nella stessa maniera, proseguiamo al banco delle verdure. Spesso Marina mi guarda e ride. Comprende il mio straniamento dato che tutto si svolge rigorosamente in wolof. Molti commercianti mi sorridono, salutano e provano dei salamelecchi a cui cerco di rispondere timidamente. Le conversazioni terminano con grasse risate dovute, penso, alle mie smorfie di incomprensione.

Usciamo dal mercato e decidiamo di tornare a piedi. Sono circa quindici minuti, nelle strade sabbiose dell’Unité 26 di Parcelles Assainie. Ci fermiamo alcune volte per conversare con amiche di Marina. Anche lei abita qui in quartiere e in molti la conoscono. Incontriamo anche Ernest. Gioca con altri bambini ma si unisce a noi. Marina mi fa cenno di accompagnarla a casa per prendere il mortaio, oggetto determinante nella sua cucina, con cui pesta ogni tipo di verdura e spezia per creare particolari salse.
Entrando noto subito il piccolo cortiletto interno, simile alle altre case in cui sono già entrato. “Lei è mia madre – fa Marina indicandomi una signora, non così anziana – aveva voglia di conoscervi”. Prende subito una sedia e mi fa mettere seduto. Mi ringrazia e, con il suo dolce sorriso, mi saluta. “Speriamo di vederci presto”. Diereudief, Madame.

Francesco Mazzanti